Comportandosi in modo schivo e riservato, Stanley non faceva che alimentare una serie di dicerie che rimbalzavano da un articolo di giornale all’altro. Ne avevo avuto già un assaggio durante le riprese di Barry Lyndon e ora, anni dopo, davano ancora fastidio. Tutti coloro che conducevo da Stanley mi chiedevano come potessi «lavorare con una persona del genere».
Charles Aznavour, che accompagnai da Heathrow a Abbots Mead, esordì chiedendomi apertamente se Stanley fosse «una brutta persona». «No, assolutamente» risposi sorpreso da quell’approccio un po’ ruvido. La sua voce tremava di nervosismo.
Nino Rota era stato ancora più spaventato: appena lo vidi mi si gettò contro e, confortato dalla lingua comune, diede sfogo alla sua ansia: «Come posso farcela? Aiutami!». Balbettava e tremava, e a poco valevano le mie rassicurazioni. L’intero tragitto fu un’incessante sequela di lamenti e sospiri.
Dieci anni dopo, Matthew Modine si trovava nella stessa situazione, ma fece l’opposto rimanendo zitto per tutto il tragitto. Stanley mi aveva preannunciato quanto sarebbe stato piacevole parlare con una persona gentile e pacata come Matthew – «un tono di voce alla James Stewart» aveva detto –, eppure non avevo sentito una parola. Era impietrito.
Ancora dieci anni dopo, Candia McWilliam, la scrittrice che Stanley convocò per Eyes Wide Shut, riuscì invece a mascherare piuttosto bene la sua trepidazione: sfruttando la conoscenza dell’italiano, cercò di rilassarsi facendomi raccontare la vita nelle campagne intorno a Cassino.
«Quanto manca?» esordì Matthew a metà del tragitto verso Childwickbury.
«Ancora un po’» risposi «quando stiamo per arrivare la avverto.»
«Ma insomma, com’è davvero Stanley?» chiese Candia tradendosi.
«Vede quest’automobile?» le dissi «Stanley vuole che usi questa stessa Mercedes – che è di sua proprietà – per la mia famiglia, per i viaggi che faccio con mia moglie. Io mi sono sempre rifiutato perché la mia Datsun è più che sufficiente, ma lui insiste e ci prova ogni volta. Si accorgerà presto anche lei che non è per niente facile smuoverlo dalle sue posizioni.»
«Però quello che la gente dice sul suo conto…» continuò Nino, a cui l’agitazione scioglieva la lingua.
«Un mucchio di cavolate!» conclusi io attenuando la definizione di Andros.
«Però sui giornali scrivono che…»
«Allora quello che scrivono su di te è tutto vero?» risi io di rimando.
«Come ti trovi a lavorare con lui?
«Benissimo.»
«Ti rimprovera mai?»
«Neanche una volta.»
Nella Mercedes tornò il silenzio. Ragazzi, non vi mangia mica!
Nello specchietto retrovisore Candia appariva disorientata, più che rassicurata: il mito del tiranno solitario che crolla così su due piedi doveva essere una visione spiazzante, come quella di un cavaliere pronto all’incontro con il drago che si ritrova di fronte una lucertola.
«Manca ancora molto?» ripeté Matthew quando imboccai Harpenden Road.
«Solo pochi minuti ormai.»
Era iniziato il conto alla rovescia, il nervosismo cresceva.
«Mi chiederà cose impossibili!» si lamentava Aznavour.
«Se l’ha convocata, vuol dire che è in grado di fare quello che chiede» dissi più per rassicurarlo che per contestare quell’affermazione.
«Non è detto, non è detto» mormoravano tutti alle mie risposte prima di ripiombare nel silenzio.
«La casa di Stanley è qui in mezzo?» azzardò Matthew tratto in inganno dal passaggio attraverso Childwick Green.
«No, manca mezzo miglio.»
Aperto il primo cancello col telecomando, Matthew ci riprovò: «È questa?».
«No, quello è lo Stable Block» lo contraddissi ancora «Stanley abita più avanti, al prossimo cancello.» Matthew non chiese più nulla e restò immobile finché non spensi il motore della Mercedes.
Stanley attendeva sempre i nuovi ospiti nel suo ufficio, e toccava a me farli accomodare. Si faceva trovare seduto dietro la scrivania, poi si alzava e ci raggiungeva tendendo la mano. Capitava perfino che mi chiamasse al telefono della Mercedes per essere sicuro di sedersi tra le sue carte per tempo. Agli incontri successivi, invece, si faceva trovare già alla porta d’ingresso ed era lui a fare strada.
«Preferirei restassi con me durante il colloquio con Kubrick» mi chiese Nino, trattenendomi sulla porta di casa.
«Non posso, è un colloquio privato tra te e lui.» Mi supplicava con gli occhi. «Possiamo fare così» proposi «resterò nella stanza finché non mi farai un cenno che va tutto bene, solo allora uscirò dall’ufficio.»
Vidi Candia rassettarsi nervosamente il vestito prima di seguirmi all’interno.
Bussai alla porta della Dome Room ed entrai, presentando Matthew a Stanley. I due si strinsero la mano. Anche Nino gliela prese. E Candia, e monsieur Aznavour. Dissi ai quattro, e a tutti gli altri prima e dopo di loro, la mia frase di rito: «Tra mezz’ora torno e vi porto un caffè», e quando Nino si voltò vidi per la prima volta i suoi piccoli occhi sorridere di sollievo. Chiusi la porta dietro di me e li lasciai soli.
Nessuno di loro sapeva che avevo detto una piccola bugia. Solo Stanley poteva decidere quando interrompere il primo round con un caffè. Il cercapersone non squillava mai prima di un’ora. Quando tornavo ad aprire la porta, Nino, Matthew, Candia e decine di altri, in salotti diversi e ad anni di distanza, avevano tutti la stessa espressione elettrizzata.
«You’ll tell me on the way out!», ne riparleremo all’uscita, avevo detto a tutti, e adesso eccoli lì, a scuotere la mano di Stanley senza volerla più lasciare.
«Che persona straordinaria!» esclamò Matthew prima ancora di risalire in macchina, e iniziò a farmi un sacco di domande su come l’avevo conosciuto, da quanto tempo lavoravo con lui e se mi trovavo bene. Adesso non stava più zitto, Matthew.
«Non potevo credere che fosse come me l’avevi descritto» ammise Nino «Stanley Kubrick è l’esatto contrario di quello che dice la gente.»