Stanley voleva che lo accompagnassi anche nei sopralluoghi alle ville e castelli d’epoca scelti come location per Eyes Wide Shut. Preferiva spostarsi con la sua macchina, con me alla guida, così seguivamo con la Rolls il location manager e la sua auto, mentre dietro di noi un furgoncino portava l’assistente regista e il direttore della fotografia.
La nostra carovana sfilava placida a 50 miglia orarie. «Perché diavolo va così piano?» esclamò Stanley contrariato «Devo arrivare là finché c’è ancora luce! Emilio, sorpassalo.» Accelerai fino a 70 miglia al successivo rettilineo e superai la macchina del location manager, facendo in tempo a vedere il suo sguardo perplesso che ci osservava dal finestrino.
Arrivati sul posto, Stanley scese dalla Rolls e prese a scattare una quantità impressionante di fotografie, infilando un rullino dopo l’altro nelle sue tasche, e a volte anche nelle mie.
«Come mai Stanley ti permette di guidare oltre le 50 miglia?» mi chiese uno dei tecnici prendendomi in disparte, «A noi ci obbliga a restare sempre sotto.»
«Non ne ho idea» dissi stringendomi nelle spalle «da quando lo conosco mi ha sempre detto di guidare alla velocità limite consentita perché non ha tempo da perdere.»
Il giorno seguente, mi recai di nuovo alla villa da solo con Stanley. Col passare dei giorni mi accorsi che chiedeva spesso di tornare dove eravamo già stati con gli altri assistenti. Si portava dietro l’esposimetro e leggeva a voce alta i valori indicati nel display; poi controllava l’ora sull’orologio da polso e mi chiedeva di scrivere tutto quanto su due bloc notes, il mio e il suo, due copie identiche, una per sicurezza. Io scrivevo alla cieca, non sapendo minimamente il significato di quelle cifre e mi domandavo come mai non si facesse accompagnare da qualcuno che si intendesse di fotografia. Ma Stanley non sembrava affatto preoccupato dalla mia ignoranza.
Prima di partire insisteva per utilizzare la Rolls: «Non trovi che tutto questo spazio abbia i suoi vantaggi?» chiedeva Stanley mentre si organizzava un ufficio mobile lì dentro, poggiando sull’ampio sedile documenti dattiloscritti, cartelline colorate e il computer portatile. Giorni dopo mi allungò un foglio di carta su cui aveva disegnato il progetto di una specie di parallelepipedo cuneiforme, con misure annotate per ogni lato: «Portalo dai carpentieri di Pinewood, per favore.» Quando mi chiamarono per ritirare l’oggetto misterioso, capii subito cosa fosse: la scrivania di Stanley in trasferta. Teneva quella tavoletta sulle gambe come base di appoggio e dal sedile posteriore impartiva ordini via telefono a tutti i suoi sottoposti: l’aveva sempre fatto, ma mai in maniera così efficiente come nella Rolls dove tutto era a portata di mano e di penna.
«Emilio, passami il tuo cellulare» mi chiedeva appena saliva a bordo. Utilizzava il mio telefono per tutte le telefonate di lavoro: voleva evitare che gli altri avessero il suo numero privato. L’inconveniente era che continuavo a ricevere telefonate per conto di Stanley Kubrick: «No, non è questo il suo numero,» «No, il regista non è con me,» «No, non so quando sarà di ritorno.» Stanley invece era molto più sbrigativo quando qualcuno chiamava al mio numero chiedendo di me: «Non può rispondere, sta guidando» e riattaccava.