TI VIENE A PRENDERE EMILIO ALLA STAZIONE
di Filippo Ulivieri
Nel marzo 2005 ricevo nella casella di posta di ArchivioKubrick una email di Paolo Morrone, dentista di Cassino che ha «la fortuna di essere amico di Emilio D’Alessandro, l’italiano che per trent’anni è stato l’uomo di fiducia di Stanley Kubrick».
ArchivioKubrick è un sito internet che ho realizzato nel 1999 come tentativo di rendere disponibile online parte del materiale che stavo raccogliendo sui film di Stanley Kubrick. Il contributo di Emilio D’Alessandro poteva essere utile al sito? Questo domandava Paolo. Per una mia forma di pudore preferisco non disturbare i personaggi noti, pensando che tutto desiderino fuorché essere coinvolti in interviste e simili. Anni prima avevo contattato Mario Maldesi solo perché dovevo risolvere alcuni dubbi sui trasferimenti in dvd dei film di Kubrick. Ora perché disturbare il signor D’Alessandro? Decido comunque di rispondere senza sbilanciarmi, dicendo di aver sentito parlare di Emilio grazie a un documentario inglese in cui aveva un piccolo ruolo nei panni dell’autista che andava a prendere i collaboratori di Kubrick alla stazione di St. Albans. Trovo difficile oggi ricordare cosa pensavo allora di Emilio, ma probabilmente devo aver avuto l’idea che un’intervista all’autista di Kubrick non fosse questo gran contributo per il mio sito. Racconto comunque a Paolo l’incontro con Mario nel suo casolare in Toscana e le successive cene con la sua famiglia, in compagnia dei gatti e di un’oca, la vera padrona del giardino.
Paolo, per niente scoraggiato dalla mia ritrosia, mi fa sapere di aver contattato Mario a sua volta e di avere in programma di accompagnare Emilio in Toscana per farli incontrare di nuovo. A fine luglio mi contatta ancora, e a questo punto rifiutare ulteriormente sarebbe stato scortese. Accetto così di incontrare Emilio assieme a dei ragazzi di Pescara che vogliono organizzare un convegno su Kubrick con Emilio come ospite d’onore insieme a Christiane Kubrick e Jan Harlan.
Il sabato successivo Paolo mi viene a prendere e mi porta a casa di Emilio, alla periferia di Cassino, in campagna. Al cancello ci accoglie un signore di piccola statura e dall’aria agile; lo vedo spalancare le braccia in segno di benvenuto, un gesto così spontaneo che mi fa sorridere. Ci presentiamo e mi accompagnano in cucina dove Janette, la moglie di Emilio, sta preparando il pranzo. Iniziamo a parlare, e io mi sento subito a mio agio. Poco dopo ci raggiungono i ragazzi di Pescara, e le ore passano alla svelta: Emilio parla con gusto e in ogni discorso c’è di mezzo Kubrick, in maniera così concreta, reale, che ho l’impressione sconvolgente di sentirmi vicino a chi per anni avevo ammirato solo da lontano. È una rivelazione, e a fine giornata mi ritrovo anche io a pensare a Kubrick come Stanley. Mentre Paolo fa manovra con l’automobile per uscire dal cancello, mi volto e vedo Emilio sbracciarsi ancora, come al nostro arrivo, questa volta con una mano sollevata in aria.
A Ferragosto Paolo è di nuovo ospite da Mario, ma senza Emilio. Quando lo chiamo mi accorgo che non vuole riferirmi quello che lui e Mario si sono detti. Mi contatta, però, ancora di lì a breve, perché a fine settembre Emilio sarebbe stato ospite di Radio Tre nel programma Hollywood Party per promuovere l’imminente mostra di Pescara. Paolo insiste per passare a prendermi e assistere alla registrazione. Negli studi Rai resto seduto nella sala ospiti con Janette: si interessa al mio lavoro come ricercatore per il Cnr, alla mia passione per i film di Stanley e, quando le racconto di essere stato a Londra varie volte, insiste nel portare avanti la conversazione in inglese. Parliamo così di commercio elettronico, di Piccadilly Circus, della cucina italiana e di quella inglese, mentre dall’altra parte del vetro Emilio racconta il parto dei gatti nella Mini di Andros e la passione di Stanley per i gadget elettronici e le macchine militari.
Qualche giorno dopo, una nuova telefonata: Emilio vuole scrivere un libro di memorie e tutti hanno pensato a me. Così, dal niente. Anzi no: mi accorgo solo in questo momento di come tutto abbia fatto click; ingenuamente, non ci avevo mai pensato. Devo aver farfugliato qualcosa su quanto fosse buona l’idea, non solo per raccontare Stanley in una luce differente da quella perpetuata dalla stampa, ma anche per permettere a tutti di godere delle emozioni che le parole di Emilio regalano. «Parliamone meglio. Vieni il prossimo sabato. Ti viene a prendere Emilio alla stazione.» Ah, ecco.
Passo i giorni seguenti a elaborare una struttura per il libro, a buttare giù idee, ipotesi e domande a cui vorrei che Emilio rispondesse. Mi preparo come per sostenere un colloquio di lavoro ma quando arrivo non faccio in tempo a proporre nulla perché scopro che tutto è già stato deciso: Emilio e Janette si limitano ad annuire con un sorriso complice e tagliano corto, come se già sapessero esattamente cosa avrei proposto. Dopo pochi minuti accetto l’idea che sia inutile continuare a «vendere» il mio progetto, devo piuttosto iniziare a lavorarci. Quella sera stessa in pizzeria scopro qualcosa in più: Janette parla per entrambi e mi dice che dovrei considerare il libro come un regalo, suo, di Emilio e di Stanley: «Non importa che ci dici come vuoi farlo, come pensi tu a noi va bene».
Nel viaggio di ritorno è soprattutto Emilio a parlare, ma mai del libro. Preferisce domandarmi della mia famiglia, della casa dei miei nonni in montagna, e se ho qualche gatto. Mi piacerebbe molto ma nel mio appartamento di Roma non ho molto spazio, dico; i miei genitori però hanno delle tartarughe in giardino. «Oh, io adoro le tartarughe!» esclama Janette «Ne avevo una quando ero bambina.» Ci infiliamo in una conversazione piuttosto estesa sulle tartarughe, alla fine della quale Emilio, casualmente, lascia cadere questa domanda: «Allora, il libro sarà pronto per Pasqua?». Era il 10 di ottobre. Prima che possa rispondere rincara con un «deve uscire in tutto il mondo, in contemporanea». Ci vorrà un po’ più di tempo, ammetto con prudenza. «Oh sì, ci vuole sempre più del previsto» chiosa Emilio sorridendo. Anche Janette ride.
Il giorno dopo lo trascorro insieme a Emilio nella sua soffitta, ad aprire i bauli in cui ha conservato il materiale relativo alla sua vita in Inghilterra. A ogni coperchio sollevato scopro piccoli tesori: il call sheet del primo giorno di riprese di Eyes Wide Shut, i portachiavi dell’Overlook Hotel, polaroid sbiadite dal set di Barry Lyndon, i documenti per l’assicurazione delle Mercedes con la firma di Emilio accanto a quella dei membri della famiglia Kubrick, i biglietti di auguri natalizi firmati da Christiane, le lettere di Kubrick, anzi di Stanley per la gestione della villa e l’organizzazione del film in produzione. Mi sorprende vedere come Emilio non tocchi nulla, lasciando che sia io a ordinare e catalogare: si limita a rispondere alle mie domande quando non riesco a risalire all’origine di qualche oggetto. «Mi sembra di stare uguale uguale con Andros» mi dice dopo un po’ «solo che tu non bestemmi.»
Un solo fine settimana non sarà sufficiente per inventariare tutto il materiale, sparpagliato tra la soffitta, il garage e la casa della mamma di Emilio, e il lavoro di ricerca proseguirà ben oltre il Natale, la Pasqua e la Pasqua dell’anno dopo, punteggiato da ottimi pranzi che Janette prepara e in cui si finisce quasi sempre per parlare dei gatti e si scoprono aneddoti a cui Emilio accenna distrattamente ma che per me valgono un intero libro della mia biblioteca kubrickiana. Mi occorrerà del tempo per abituarmi a considerare normale la quotidianità di Emilio con Stanley. Emilio lo sa e si diverte a giocare con il mio entusiasmo: «Ti ho preparato una sorpresina» mi ha detto più di una volta al mio arrivo alla stazione, per poi mostrarmi in garage un cimelio ritrovato chissà dove: una copia in lp della colonna sonora di Full Metal Jacket autografata da Kubrick, il mazzo di chiavi di Childwickbury, una foto polverosa di lui con i baffi di fronte al plastico dell’Overlook Hotel.
A volte le scoperte erano meno leggere, come quella volta in cui al telefono, con la voce rotta dall’emozione mi disse di aver trovato un biglietto che Stanley gli aveva scritto dopo la sua decisione di tornare in Italia. Era rimasto per più di dieci anni nelle tasche di una delle giacche di Full Metal Jacket. «Mi ha scritto che era molto triste per la mia partenza… Non me lo ricordavo, questo biglietto…»
Non era immediato riuscire a calibrare il peso da dare a ciascun episodio: a voler chiedere – e io volevo chiedere –, un giorno qualsiasi trascorso con Kubrick sarebbe bastato a riempire cento pagine. Volevo restituire il ritmo delle giornate con il regista, ma al tempo stesso cercare di restare fedele all’idea che Emilio aveva di Stanley, mettendo da parte la mia: Stanley per lui non era il genio che ha prodotto alcuni degli indiscussi capolavori del cinema, era semplicemente il migliore datore di lavoro possibile, circondato dalla migliore squadra di collaboratori possibile. Era un corso di formazione professionale e una scuola di vita. A volte mi preoccupavo di essere troppo invadente, e mi domandavo se indagare il Kubrick privato fosse un’operazione indiscreta, ma bastava ascoltare la voce di Emilio per capire che la sua memoria mi avrebbe offerto fatti e impressioni, mai segreti.
Avevo bisogno di inquadrare Emilio per iniziare a scrivere la sua storia, ma trovavo difficile definire la natura del suo lavoro, della sua presenza accanto al regista. Emilio è stato l’unico a restare con lui per così tanto, e soprattutto l’unico a restare non perché fosse Kubrick, ma perché era Stanley. È andato oltre il ruolo del tuttofare che si accolla e risolve le incombenze della vita quotidiana, e anche oltre lo stereotipo del tassista-confidente che carpisce pensieri, timori e gioie di chiunque si sieda nel sedile posteriore. Non esiste una parola per definire ciò che Emilio ha fatto con Kubrick o per ciò che è stato; scrivendo assistente, assistente personale, uomo di fiducia o uno di famiglia c’è sempre l’impressione di lasciare fuori qualcosa. Emilio semplicemente era lì quando c’era bisogno di lui – e anche quando non ce n’era, «perché non si sa mai». Ho ripensato spesso alle parole di Sara Maitland nel documentario The Last Movie: «Stanley era assolutamente inconsapevole delle frustrazioni che affliggono la vita del ceto medio. I computer non si rompono. Perché non avevo ancora aggiustato il mio? Perché non avevo un tecnico competente? Perché non l’avevo ancora fatto venire?». È vero, Stanley era assolutamente inconsapevole di tali frustrazioni, ma non per una questione di ceto sociale: è perché aveva Emilio a portata di telefono. Il compositore Nino Rota, chiacchierando con Emilio dal sedile posteriore della Mercedes, di ritorno da Abbots Mead, aveva sintetizzato meglio di tutti questa epifania: «Avrei voluto avere io la fortuna che ha avuto Kubrick!».
«Filippo» sintetizzò una volta Emilio per togliermi dai dubbi «basta fare un libro come Stanley avrebbe fatto un film.» Voleva rassicurarmi o spronarmi? Mi sforzai piuttosto di non restarne terrorizzato.
Trovavo un certo sollievo a concentrarmi sui dettagli a prima vista insignificanti: le radio che si aggiustano al volo, le riunioni a due davanti alle tazze di caffè, le porte delle major spalancate quando erano state sempre chiuse, Stanley che vuole Emilio intorno a sé apparentemente senza motivo. Avvertivo che queste immagini erano più significative di tanti miei ragionamenti, potevano perfino essere una risposta. Certamente una risposta era il giardino davanti al casolare, perfettamente curato, solo l’ultimo di una lunghissima serie. Nelle pause tra le interviste – non tanto per riposarsi, quanto perché doveva dare da mangiare alle galline – raccoglievo i miei pensieri all’ombra del portico e guardavo quei ciuffi d’erba verdissima pareggiata al millimetro, quei fiori coloratissimi e disposti con cura, quei frutti quasi maturi intorno a cui ronzavano gli insetti. Serviva altro? Emilio rispuntava dal pollaio sorridendo, allungando la mano per mostrarmi un paio di uova. E sorridevo anch’io.